La giostra della bufala
La giostra della bufala è un
racconto tratto dalla raccolta Saggio di novelline, canti e
usanze popolari della Ciociaria di Giovanni Targioni Tozzetti
(1863-1934). Pubblicato nel 1891 e dedicato allo scrittore e
antropologo Giuseppe Pitrè, attraverso la narrazione di novelle e
canti popolari, l'opera descrive i costumi e le usanze della
Ciociaria. Per maggiore aderenza alla realtà descritta la lingua
conserva forme del dialetto. Così, infatti, l'autore si esprime
nell'introduzione: "le Novelline ed i Canti popolari che
pubblico, incoraggiato dal dr. Giuseppe Pitrè, a cui volli, in
segno di reverente gratitudine, dedicare questo libretto furono
raccolte da me, nell'anno 1887, mentre stava a Ceccano, piccola
città della Ciociaria. Il lettore troverà nelle Novelline, più o
meno, conservate le forme del dialetto, e ciò per la differente
cultura dei narratori, né io volli niente mutare a' racconti presi
dalla viva voce del popolo, per non togliere loro il pregio massimo
della spontaneità ".
Dopo il porco e
le oche, il bufalo e l'animale più comune nelle campagne romane.
Nelle pianure verdeggianti, su pe' colli, nelle vallate, i bufali,
che distendono intorno a sé un acuto odore di muschio, pascolano a
branchi numerosissimi.
È da tempo antico
che a Ceccano si fa la giostra della bufala. Non si preparano
steccati, né palchi, né posti speciali per assistere alla festa, né
si addomestica l'animale, né si adorna con fiocchi o con nastri.
Tutt'altro.
Il giorno
convenuto, in fatti, uno de' primi di luglio, di buon mattino , ero
sulla piazza detta in dialetto «dugli turronu », perchè ai lati di
essa sorge una piccola torre.
- È veru ca
Lisandru va accolla gli bufalu ? È 'rossa?-
- È 'rossa,
i tira cummu 'na diavula.- A che ora la va accolla ?
- Versu misidì.
Vulimu i' puru nuia ?
Cosi dicevano tra
loro alcuni villanelli, i quali scalzi cenciosi e sudici
saltellavano per la gioia. Dopo qualche tempo la piccola comitiva
s'era fatta numerosa, ed allora, fischiando e gridando a
squarciagola, si diresse, seguendo i più valenti giostratori, verso
la casa di Alessandro beccaio, che doveva in quel giorno andare,
credo, nel territorio di Giuliano a comprare una bufala. Giunti
sotto la catapecchia di Lisandro, con urla e fischi lo avvertirono,
che essi erano pronti a mettersi in cammino, e Alessandro allora si
fece alla finestra e pregò gli amici ad attendere un istante,
perché doveva sbrigare non so quale faccenda. Ma che! le urla ed i
fischi risuonarono più forti.
- Fora Lisandro !
Fora Lisandro! -ripeteva ognuno, così che il disgraziato fu
costretto a scendere in strada, e appena comparve sulla soglia fu
salutato con strepitosi battimani. Egli rispose al saluto con un:
-Che ve pozzinu ammazzà'! - e seguito da folla immensa, s'
incamminò alla volta di Giuliano.
La via, quel
giorno, per andare a prendere il bufalo, non fu lunga, in confronto
di quelle che i ragazzi dicevano di aver fatte gli altri anni.
Giunti ad un casolare che sorge alle falde dei monti Lepini ,
ilbeccaio diede ordine ad un contadino , giovanotto di circa venti
anni, di attaccare «gli sarde» (le corde) alle corna della
bestia.
Il giovine si
fece vicino al bufalo che placidamente pascolava, e non appena,
accarezzandolo, gli riuscì intrecciargli il capo con delle funi, si
levò un grido fra i convenuti assordante; quanti più poterono si
attaccarono ai lunghi canapi che trattenevano la bestia, e
trascinandola incominciarono a correre.
Il povero animale
li seguiva sulle prime pazientemente, ma quando incominciò ad
irritarsi, si diede ad una corsa precipitosa, sì che i villani, a
stento, poterono impedirgli che scappasse via.
Molti, vedendosi
mal riparati, saltarono le siepi, altri caddero malconci, altri più
animosi, corsero dietro l'inasprito bufalo, che muggiva
selvaggiamente.
Non si può
descrivere il clamore alto, scomposto col quale , al suo comparire
sulla piazza, fu salutato dalla folla accalcata: colle narici
aperte, tutto ansante e grondante sudore, atterrito da quello
schiamazzo, il bufalo correva qua e là all' impazzata, trascinando
i suoi conduttori, i quali erano costretti ad aggrapparsi, come
meglio potevano, alle corde per non cadere sconciamente.
A forza di spinte
riuscirono a far entrare il bufalo in una stamberga preparata per
lui , e qui lo lasciarono senza mangiare e senza bere.
Chiuso il
cancello di quella stalla improvvisata , i caporioni della giostra
(designati col nome di «Caposardi», cioè, che tengono la corda)
stabilirono l'ora della corsa : le tre, dopo pranzo.
- Alle tre se fa
la giostra ! - fu questo il grido, che corse di bocca in bocca per
tutto Ceccano.
All' ora indicata
una folla di curiosi, urlando e fischiando, si accalcava innanzi al
cancello, dietro il quale il bufalo guardava sospettoso, mentre i
monelli facevano a gara ad aizzarlo, tirandogli la fune,
punzecchiandolo con dei bastoni, sputandogli sul muso.
Il disgraziato
animale, ogni tanto, squassava muggendo la testa, e dava terribili
colpi di corna al malsicoru cancello, che scricchiolava fin dai
cardini.
- Paulì', purchè
nun vai a tolla la chiavu, ca vulemu caccia'' gli bufalu ? - disse
un «Caposardo» al figliuolo del macellaio.
- Ie nun la
tengu; la te' Giggettu.
- Nun è vero,
rispose un altro, la te' Lisandru.
- No, l'ha datu a
Giuagnu.... gli vulemo i' a chiamà'....
- Iamu ! Iamu ! -
gridarono in coro , e s' avviarono, seguiti da un codazzo di
monelli che fischiavano a più non posso, per mostrare la loro
impazienza.
Alcuni intanto,
restarono vicino alla stalla ad infastidire la bestia, ma ad un
tratto s'udì un lontano vociare, che a poco a poco s'avvicinò e si
fece più distinto.
- Essu Lisandru !
essu Giuagnu ! essugli , essugli! eh! eh! bò... bò... - E mentre i
più paurosi e i più deboli cercano di accaparrarsi un posto sicuro,
Giuagnu s'avanza tenendo in mano la chiave del cancello, dietro al
quale era prigioniera la disgraziata bestia, ma non appena l'ebbe
schiuso fuggì. Solo il «Caposardo» Giggettu, ed altri pochi
restarono a tirare la fune alla quale era attaccata la bufala,
mentre alcuni villani per aizzarla le battevano sul muso una pelle
di capra.
Il povero animale
uscì mezzo sfinito dalla fame e dalla sete, chè da ventiquatt'ore
non toccava né erba né acqua, guardando intorno atterrito e
sospettoso.
- La pella, la
pella, purtatu la pella, ohè! - grida uno, mentre tutto anelante
tira una delle corde a cui è legato il bufalo, che s'avanza pian
piano, poi, d'un tratto, si mette ad un galoppo sfrenato, correndo
dietro ai suoi assalitori, che confusi cercano uno scampo dietro le
siepi o dentro le case. Ma ben presto si ferma, stanco, affannato,
ed allora tutti gli corrono nuovamente addosso, toccandogli la
coda, punzecchiandogli il corpo. E l'impaziente animale, facendo un
altro sforzo per sfuggire al martirio, ripiglia novamente la corsa,
a testa bassa, cercando di colpire qualcuno della turba.
- A cavagli , a
cavagli ! - grida un Ciociaro, e spiccando un salto tenta di montar
sulla groppa della bestia, che con un colpo di schiena, tra le
risate della plebaglia, lo manda nella polvere.
- Giggettu sa fa'
! Carlinu sa fa'! - gridasi da tutte le parti; e costoro, stimolati
da quelle acclamazioni, fanno a gara per avvicinarsi al bufalo.
- Faciamulo
rupusà'!-gridano Lisandro e Giuagnu.
Ma i «Caposardi »
fanno orecchio da mercante, e quelli : - Ohè! nun ci suntatu, cu vu
pozzunu ammazà'.... si vuniamo a iesci vu scannamo.... faciatula
rupusà' 'nu cunittu, pora 'bbêstia !
Alle minacce di
Lisandro e di Giuagnu i caporioni si soffermano.
- Al tringhettu!
al tringhettu ! - s' incomincia a gridare, mentre la bestia è
trascinata verso una baracca di legno detta «travaglio», dove
legano i cavalli per ferrarli. E nuovi tormenti le si
preparano.
Un monello,
ridendo e saltando, porta una manata di peperoni rossi e li porge
ad un «Caposardo», il quale li prende, e avvicinandosi al bufalo,
che se ne sta legato dentro il «travaglio», glieli introduce nelle
nari. Allora, infuriato da quell'insolito pizzicore, l'animale
sbuffa, ansa e tenta invano di fuggire.
- Agli runcroccu,
agli runcroccu !-grida un altro «Caposardo», mentre s'affatica a
portare in collo un mezzo tronco d' albero. Tutti allora gli si
fanno attorno, ed egli pone, alla meglio , ritto quel tronco, poi
vi si sovrappone una giacca ed un cappellaccio, ed il tronco piglia
cosi l'aspetto d'un goffo bamboccio.
Allora la folla
si riversa rumoreggiando nelle vie adiacenti, sugli alberi, dietro
le prode e solo rimane nella strada Giuagnu, il quale, fermandosi
dietro il «runcroccu», e sporgendo in avanti una pelle di capretto,
grida a più non posso : - Bò... bò !
Il bufalo
finalmente sciolto, s'avventa furioso contro il tronco vestito
(Giuagnu s'è già messo in salvo), e lo atterra fra le risate della
folla.
Il giuoco vien
ripetuto parecchie volte, e l'animale, spossato dopo tante corse ,
sfinito dalla fame e dalla sete, si ferma, né si ribella più, per
quanto lo tormentino. Passo passo , tra i fischi e le grida, lo
riconducono alla stalla, ove lo lasciano in pace fino alle cinque
del mattino seguente.
Alla quale ora,
davanti a pochi spettatori , si ripetono, se è possibile, le solite
cose del giorno innanzi: «la pella», «il tringhettu», « gli
runcroccu » e poiché la giostra è fatta unicamente per riscaldare
la carne del bufalo, che altrimenti non sarebbe mangiabile, verso
le nove la bestia martoriata vien condotta all'ammazzatoio.
E subito dopo il
banditore gira per tutte le vie del paese, gridando:
- Ohè, chi vo'
pigliarsu la carna du bufaletta... a se' soldi la libbra, Lisandru
, gli macillaru alla piazza vecchia, la vennu !